LA RESPUBLICA ROMANA, MUNICIPALE-FEDERATIVA E TRIBUNIZIA: MODELLO COSTITUZIONALE ATTUALE

di Giovanni Lobrano



Premessa – La ‘ipotesi di lavoro’ dei due costituzionalismi e dei loro “modelli


Nel diritto costituzionale, sono presenti – seppure non in forma e misura eguali – due costituzionalismi che ‘convivono’, non come due metalli in una lega o due liquidi in un unico recipiente ma come due fili di diverso colore e spessore in una stessa trama: senza fondersi l'uno nell'altro.
Possiamo collocare nel diciottesimo secolo, particolarmente in Francia, la formazione della scienza delle ‘costituzioni’ e, quindi, del ‘diritto costituzionale’, con la articolazione nei due costituzionalismi, di cui Montesquieu e Rousseau sono, rispettivamente, i massimi teorici e propugnatori.
Tale articolazione è abbastanza nota. E’ decisamente meno noto che il ‘costituzionalismo rousseauiano’ assume a modello il Diritto (pubblico) romano. E’ stata, infatti, osservata la «singolare sottovalutazione del modello romano da parte di tanti critici» che «farebbe pensare a una sorta di generalizzata rimozione» del «Carattere paradigmatico del modello romano» per cui il libro IV del Contrat social (che contiene, nei capitoli 3-8, la più diretta interpretazione e riproposizione delle istituzioni giuspubblicistiche romane) acquista «il valore di vera e propria chiave di volta di tutta l’opera»[1]. A questa disinformazione si connette la interpretazione, tanto corrente quanto falsa e fuorviante, della stessa ‘articolazione’ come contrapposizione tra ‘democrazia diretta’ e ‘democrazia indiretta’[2].
In realtà, se vogliamo comprendere i due costituzionalismi, che fanno rispettivamente capo (assumendoli esplicitamente come “modelli”) agli ordinamenti o sistemi precedenti (tra loro diversi anche per epoca e contesto d’origine) feudale-moderno inglese e antico romano, dobbiamo ripartire dalle fondamentali categorie sistematiche interne ai rispettivi modelli. Il costituzionalismo di modello inglese è definibile, in senso proprio, come ‘parlamentare-rappresentativo’ (per quanto riguarda i processi di formazione della volontà) con la connessa divisione-equilibrio dei poteri (come mezzo di difesa della libertà) mentre il costituzionalismo di modello romano è definibile, in senso altrettanto proprio, come ‘repubblicano-municipale’ e (rispettivamente) ‘tribunizio’. Applicando ad entrambi (come è stato per lo più fatto) le, apparentemente, più intuitive categorie politiche greche, i due costituzionalismi possono anche essere definiti ‘aristocratico’ l’uno e ‘democratico’ l’altro. Quest’ulteriore definizione comporta (in quanto almeno parzialmente eterogenea) una approssimazione concettuale, tollerabile se la si integra con la contrapposizione (la quale viene in essere, invece, proprio nell’intreccio delle vicende storico-sistematiche dei due costituzionalismi e dei loro modelli) tra ‘sovranità parlamentare’ e ‘sovranità popolare’. A questi due costituzionalismi e rispettivi modelli può ricondursi anche la alternativa tra ‘centralismo’ e ‘federalismo’, ma va avvertito che qui il terreno terminologico-concettuale si fa ulteriormente infido e che occorrono particolari cautele.
Tra lo svolgersi del modello inglese e la sua teorizzazione-riproposizione, da parte di Montesquieu, non vi è soluzione di continuità. Sia pure in riferimento a vicende differenti, una simile affermazione può farsi anche a proposito della teorizzazione-riproposizione del modello romano, da parte di Rousseau. Ciò perché – come cercherò di illustrare brevemente – la compilazione giustinianea (del secolo VI d.C.) non è una cesura ma lo snodo di una vera e propria continuità nella presenza e connesse applicazioni del Diritto pubblico romano. Questa ‘presenza’ attraversa le epoche medievale e moderna, in costante dialettica con quel genere di ordinamento o “sistema”, individuato come “forma gotica di governo” e la cui ‘erfolgreichste’ specie inglese sarà assunta, a partire dal Settecento, come modello costituzionale.
Nonostante i tentativi di composizione (si pensi a tutta la teoria/prassi otto-novecentesca del ‘partito’)[3], anche i due costituzionalismi sono sostanzialmente alternativi e, nel diritto costituzionale della epoca contemporanea, prevale, nella sostanza, il costituzionalismo parlamentare rappresentativo e della divisione-equilibrio dei poteri, mentre la presenza – pure essendo importante – del costituzionalismo repubblicano-municipale/federativo-tribunizio resta confinata sopra tutto a livello terminologico; ciò che dà, come risultato, il riconosciuto carattere anfibologico del diritto costituzionale contemporaneo. Penso – tra gli altri – ai contributi convergenti di Madame Germaine de Staël (della quale è noto il sodalizio con Benjamin Constant) nella falsificazione contemporanea del concetto di ‘Repubblica’ (Des circonstances actuelles qui doivent terminer la révolution et des principes qui doivent fonder la République en France, 1798)[4] e di Alexis de Tocqueville nella falsificazione contemporanea del concetto di ‘democrazia’ (De la démocratie en Amérique, I-II, 1835-1840).
Però, ogni volta che il costituzionalismo prevalente entra in crisi (forse dovrebbe dirsi: in una fase acuta di crisi), vi è un vero ‘risorgere’ (sebbene non sempre in forma cosciente e, quindi, sistematica) delle soluzioni costituzionali repubblicane romane; essenzialmente: (il ruolo costituzionale de)i municipi (cui si accompagnano spinte anti-centralistiche e federative) ed il tribunato. In effetti, il costituzionalismo parlamentare attraversa una crisi crescente tanto nell’istituto della rappresentanza come mezzo di formazione-manifestazione della volontà sovrana[5], quanto nell’istituto della divisione-equilibrio dei poteri come mezzo di tutela dei diritti[6]. Conseguentemente, negli ultimi anni, si sta diffondendo, seppure proprio nella forma ‘incosciente ed a-sistematica’, una forte attenzione per il ruolo costituzionale delle città-municipi (e, quindi, per la organizzazione federativa), mentre, già a partire dalla epoca postbellica, gli Europei (e, a partire dalla ‘decade degli ottanta’, i Latinoamericani) hanno tentato – in buona sostanza – di dotarsi di tribuni, cercandoli però nel ‘precedente’, totalmente alieno e senza consistenza, dell’‘ombudsman’ svedese[7].
La presenza di tale dualismo-contrapposizione è avvertita dalla dottrina costituzionale contemporanea[8]. Tuttavia una comprensione più approfondita di entrambi i costituzionalismi è – ovviamente – possibile soltanto attraverso il Diritto (pubblico) romano.
Non soltanto, infatti, uno dei due costituzionalismi è dichiaratamente 'romano', ma entrambi sono fondati, seppure in forme diverse[9], sulla dottrina di origine giusromanistica della 'sovranità popolare'; dottrina gestita in ciascuno di essi con forme e con esiti altrettanto – se non ancora più – diversi[10]. L’avvio della riformulazione moderna della dottrina della sovranità popolare è fatto risalire alla epoca tra il secolo XI e il secolo XIII[11], nell’àmbito degli, allora rinascenti, studi di Diritto romano. I Glossatori, studiosi della codificazione di Giustiniano, proprio da loro chiamata Corpus Juris Civilis, riscoprono in questo Corpus una logica giuridica affatto straordinaria, dalla quale appaiono in qualche modo ‘conquistati’. Il principio-base di tale logica giuridica (il popolo è il titolare del potere ed ogni potere proviene, quindi, continuamente dal popolo) i glossatori trovano esplicitato nella cd. lex regia (Ulp. D. 1.4.1)[12] e giustificato logicamente nella formula per cui quod omnes similiter tangit, ab omnibus comprobari debet (Codex Justiniani5.59.5.2)[13]. Ma il Corpus Juris Civilis non è l’unico canale di trasmissione del Diritto romano: vi è anche la “rete delle città”[14].


I. – I modelli


1. – Il modello romano antico del costituzionalismo repubblicano-municipale e tribunizio


a. Il ‘costituzionalismo rousseauiano’ si inserisce in un filone caratterizzato in misura determinante dalla struttura cittadina: i Comuni medievali (e le Città moderne) sono il precedente crono-logico della ‘république’ di Rousseau ed i Municipi antichi sono il precedente crono-logico dei Comuni medievali (e delle Città moderne). Se non intendiamo il sistema repubblicano-municipale antico, organizzato con lo strumento del foedus, ci precludiamo la comprensione del cd. ‘costituzionalismo democratico’ contemporaneo e dei suoi precedenti medievali e moderni. 'Municipio' è la istituzione ‘autonomistica’ della città; essa appartiene alla tradizione giuridica romana, la quale – nel quadro della koiné mediterranea – ha sviluppato in relazione essenziale le nozioni di populus e di urbs-civitas[15].
Sia la “democrazia” sia la “repubblica” sono nozioni ed esperienze istituzionali radicate esclusivamente in quella realtà indissolubilmente fisica ed istituzionale che, da Fustel de Coulanges (La cité antique, 1864), chiamiamo – impropriamente benché efficacemente – “città-Stato”[16]. I cittadini delle Città greche e della Città di Roma, riuniti nella agorà e nel foro (mercato, piazza d’armi e sede dell’assemblea), si scoprono Popolo in una forma nuova in quanto scoprono il “potere del Popolo” (Eschilo, Le supplici, vv. 604 e 698). La esperienza e la riflessione greche sulla polis, i politai, il ‘demos come insieme dei politai’ ed il ‘potere del demos’ producono la ‘democrazia’ e la scienza della ‘politica’; la esperienza e la riflessione romane sull’urbs e la civitas, i cives, il ‘populus come insieme dei cives’ ed il suo potere producono la res publica e la scienza dello ius publicum.
Tra la teoria e la prassi politiche greche e la teoria e la prassi giuspubblicistiche romane vi sono grandi elementi di continuità e, al contempo, di novità.
Il grande elemento di continuità è costituito dal ruolo essenziale della città: originario e che mai viene meno durante tutta la storia romana. Secondo la scienza giuridico-augurale romana, il popolo romano viene in essere a séguito della creazione dell’urbs-civitas[17], Cicerone indica nelle civitates la “costituzione” medesima del popolo[18], Gaio e Giustiniano definiscono 'tout court' il populus come universi cives[19]. Il nesso con la città determina la natura “concreta” del popolo[20].
I grandi elementi di novità (tuttavia radicati e che vivono sempre e soltanto nel contesto fisico e istituzionale della città) sono le nozioni di ‘repubblica’ e di ‘municipio’.
La repubblica è la ‘rivoluzionaria’ costruzione giuridica sulla ipostasi del popolo. Gli scienziati del pensiero politico-giuridico medievale e moderno, che pure continuamente approfondiscono la nozione di ‘democrazia’, sono condannati a non intendere né tale pensiero né le dottrine e le istituzioni costituzionali contemporanee, se non indagano adeguatamente la nozione di ‘repubblica’: antica, ma, quindi, fondamentale per tutto il corso degli evi medio e moderno. A differenza della relazione intercorrente tra ‘demos’ e ‘polis’, il popolo romano diventa l’elemento fondante ed eponimo del suo stesso ordinamento: la repubblica. Nella sua ‘monografia’ sulla repubblica, Cicerone può scrivere (1.25.39) Res publica id est res populi. E’ un vero ‘salto’ logico, la cui manifestazione più esterna è l’articolarsi in due livelli dell’analisi ‘giuspubblicistica’ (rispetto all’unico livello dell’analisi ‘politica’): 1) il livello della distinzione fra repubblica e non-repubblica (il regnum) e 2) il livello della distinzione fra forme diverse di repubblica (popularisoptimatiumregalis = democrazia, aristocrazia, monarchia). Il primo livello è quello della produzione del diritto (tramite i “comandi generali del popolo” che sono le “leggi” [Capitone presso Gell.n.A.10.20.2]), livello che noi (da Bodin) chiamiamo della ‘sovranità’ e che (dallo stesso Bodin) è fatto corrispondere alla categoria romana antica di maiestas[21]. Il secondo livello è quello dell’‘esecutivo’, che già Cicerone chiama ‘governo’. Mentre la scienza politica greca ammette la politeia aristocratica e la politeia monarchica alla stessa stregua della politeia democratica, la scienza giuspubblicistica romana pone nella categoria dei ‘crimini’ l’aspirazione all’ordinamento diverso dalla repubblica (il regnum), all’ordinamento, cioè, nel quale l’esercizio della sovranità (il leges jubere) non appartiene al popolo. Per altro, i romani – una volta stabilito che i governanti (magistratus) sono “servi del popolo” (Cic. de or. 2.167; Paul. D. 50.16.215) – possono criticare le città greche, ove il popolo governa assemblearmente (Cic. pro Flacco 7.16; rep. 1.26 s.), e scegliere, invece, di affidare vantaggiosamente il governo a “pochi”, la cui obbedienza alle leggi (generalia iussa populi) viene controllata sia alla fine del mandato, attraverso l’esame giudiziario di eventuali responsabilità[22], sia – soprattutto – durante il mandato, attraverso l’istituto, necessario alla repubblica, del tribunato e del suo specifico potere di veto (Cic. leg. 3.15 s.: altra fondamentale novità giuspubblicistica).
La repubblica consente inoltre (a differenza ancora della esperienza politica greca) di oltrepassare la dimensione cittadina (intesa come limite) senza rinnegare la città. La concezione societaria del popolo (v. infra) non ne fa dimenticare a Cicerone la natura concreta grazie al ruolo determinante dei “concilia hominum” (Cic. rep. 6.13.13): il popolo dell’ultimo secolo a.C., su cui lo stesso Cicerone fonda il nascente Principato[23], è, dunque, sempre e soltanto il popolo dell’agorà e del foro. La Repubblica è, per ciò, municipale. Il municipio è la invenzione giuridica della ‘autonomia’, per la quale più città possono convivere in una unica repubblica ed in un unico popolo, essendo e restando ciascuna di esse, giuridicamente, una repubblica ed un popolo (Gell. n.A. 16.19.6). La storia della repubblica del popolo romano è scandita dalle grandi svolte del processo di articolazione municipale, il quale ne assicura anche la continuità: dai primi municipi dopo la guerra latina del 340 a.C.[24] alla loro moltiplicazione dopo la guerra sociale del 90-89 a.C. (che estende la cittadinanza romana all’Italia), alla loro sistemazione con la constitutio Antoniniana del 212 d.C. (che estende la cittadinanza romana all’Impero e – tendenzialmente – al mondo). Anche durante l’impero, Roma resta, in senso proprio, una ‘repubblica municipale’, cioè: una respublica di respublicae, un populus di populi; in definitiva: una civitas di civitates, dove mai vengono meno gli essenziali “concilia hominum”.
La spiegazione eziologica del complesso fenomeno giuspubblicistico (romano), nonché ‘trait d’union’ tra i suoi elementi di continuità e di novità, è indicata ancora da Cicerone, il quale definisce sia il popolo[25] sia la civitas[26] come “società”, cioè come il frutto di un contratto consensuale di società volto alla realizzazione della communio utilitatis. Anche la ‘società’ è una ‘invenzione’ giuridica, le cui potenzialità appaiono conquistare i Romani. Essi interpretano giuridicamente il complesso delle relazioni umane in chiave societaria: dalla coppia coniugale (Cic. off. 1.17.54, prima societas in ipso coniugio … principium urbis et quasi seminarium reipublicae) alla umanità intera (off. 3.17.69, ius gentium …societas omnium inter omnes) attraverso l’urbs e la ‘res populi[27]. In riferimento specifico all’ordinamento repubblicano, il ricorso allo schema del contratto di società, per il quale i cittadini sono soci e il popolo è la società risultante, consente di fondare teoreticamente la partecipazione diretta di ogni cittadino (quindi, sovrano [= cum potestate] e non soltanto privato) alla formazione della volontà pubblica e dà ragione della necessità, per la Repubblica, della virtus (e della, quindi connessa, magistratura censoria), senza la quale non sarebbe possibile il complesso percorso volitivo di ciascuno e di tutti i cittadini verso la singulorum utilitas (Ulp. D. 1.1.1.2 = I.J. 1.1.4) attraverso la communio utilitatis.
La scienza giuridica romana (il ius feziale) pone all’origine e nello sviluppo della società repubblicana lo strumento del foedus (Liv. 34.57. 7 ss., tria genera foederum … tertium esse genus cum qui nunquam hostes fuerint ad amicitiam sociali foedere inter se iungendum coeant)[28]. Esso è posto sia all’origine della società del populus (Cic., pro Balbo 13.3: nostrum fundavit imperium et populi Romani nomen auxit … princeps ille creator huius urbis Romulus foedere Sabino) e del suo dinamismo interno alla urbs-civitasprimeva, tra gruppi sociali (patrizi e plebe) che sono e restano diversi (Liv. 2.33.1; 4.6.7, foedere ictu cum plebe, da cui nasce il tribunato; cfr. Dion. Hal. 4.89), sia all’origine e nello sviluppo dell’articolarsi della società dei municipi: dalla societas ‘nella’ città alla societas ‘tra le’ città[29]. La civitas romana è essenzialmente ‘crescente’ (come ricorda ancora Giustiniano, citando Pomponio in D. 1.2.2.8: augescente civitate; cfr. Codex Justinianus 7.15.2 civitas amplianda). La ‘crescita’ avviene principalmente attraverso il foedus[30]: la federazione delle città rende soci tra loro i rispettivi popoli per fonderli quindi in un solo popolo, esso stesso società formata da numerose città: i municipia.
L’impero romano (la “repubblica dell’impero” [Catalano]) è – come scrive Theodor Mommsen [Römisches Staatsrecht, 3a ed., 1887] – una «rete di città», che costituisce il lascito del mondo antico al mondo medievale e moderno.

b. Gli storici del diritto distinguono, a questo proposito, tre aree: 1) Italia, Francia meridionale e Spagna, dove vi è una vera e propria continuità fisico-istituzionale tra ilmunicipium romano e il 'comune' medievale; 2) Inghilterra, Francia settentrionale, Paesi Bassi, Renania, Svizzera, Germania meridionale ed Austria, dove il declino della vita urbana ha coinciso con la fine della fase antica dell'Impero romano ma che conservano tracce del municipio romano; 3) Germania del nord e Paesi scandinavi, dove non vi è tradizione romana[31]-[32].
Rispetto alla Città-Municipio antica, 'Comune' è la 'novità' terminologica medievale della società giurata tra cittadini; 'novità', però, che conserva o riprende la equazione giusromanistica 'popolo = società di cives' contratta per la utilitatis communio. Non si intende la istituzione comunale medievale senza una adeguata comprensione della istituzione municipale antica[33]. Con tutti i suoi limiti, il Comune esprime la presenza e le potenzialità continue – direi: insopprimibili – del filone ‘costituzionale’ repubblicano municipale. I limiti localistici della esperienza comunale sono precisamente nella mancanza della sintesi superiore, coessenziale alla esperienza municipale e garantita – nell’evo antico – dalla Città di Roma nonché (quindi) dall’autorità imperiale.
Tra il fiorire della istituzione 'comunale' e la ripresa, dopo il '1.000' (secoli XI-XIII), dello studio del Diritto romano vi è un nesso evidente, quanto meno sul piano cronologico. Si potrebbe, anzi, dire che l’uno e l’altro fenomeno sono le facce di un unico fenomeno. Gli studi del Diritto romano ‘risorgono’ con e nei Comuni, attraverso la istituzione delle 'Universitates studiorum' ('società' anche esse, come i 'comuni') di Bologna, Salerno, Parigi, Oxford...[34]
Nel breve testo Oculus pastoralis (che si ritiene apparso a Bologna poco dopo il 1240 e che è stato definito «primo fra tutti i saggi di teoria dello Stato comunale»), l’ignoto autore scrive che i comuni (communitates locorum) chiamano a consiglio il maggior numero di persone in conformità alla regola che quod omnes tangit ab omnibus comprobari debet[35].
La influenza determinante delle concezioni giuspubblicistiche (repubblicane) romane in questa epoca, si evidenzia anche nel Defensor pacis di Marsilio da Padova (1275-1343) il quale «sottopone il governo (la pars principans) al legislativo [… cioè] al popolo» e secondo il quale la «democrazia caratterizza non la funzione legislativa attribuita al popolo, ma piuttosto una forma di governo … aristotelicamente … degenerata»[36].
Il principio ‘democratico’ giusromanistico del quod omnes tangit sarà invocato anche da Edoardo I nel 1295, a proposito della istituzione parlamentare[37], ma, a differenza delle corti regie (composte di pauci et specialiter seniores), nel Comune è direttamente il ‘ceto dei molti’ ad essere chiamato a decidere, senza (bisogno del) ricorso all’istituto della finzione della rappresentanza della volontà.
Ogni Comune è, quindi, propriamente[38], una “repubblica”. Anzi, nel latino medievale, la parola commune (neutro di communis) sta propriamente per ‘repubblica’[39]. Lo storico del diritto italiano, Mario Galizia, così lo descrive: «nell'ambito del comune si ricostituisce l'ente politico sotto la forma di universitas territoriale, che si identifica non con un singolo governante ma con l'intero popolo. E la vita comunale è regolata prevalentemente da statuti emanati dall'assemblea e rivolti non ad un gruppo di sudditi ma astrattamente alla generalità dei cittadini. All'interno dell'associazione il problema degli organi di governo e quello della condizione giuridica dei sudditi sono poi risolti con l'attuazione del principio democratico e del principio legalitario. Tutta la vita comunale affonda le sue radici nel popolo. Il magistrato è strettamente subordinato alla volontà popolare; egli non può agire che in conformità della legge; se i suoi atti sono compiuti contra jus sono nulli. Egli è pienamente responsabile del suo operato. Allo scopo esiste il sindacato, controllo generale sull'operato di tutti i funzionari; allo scopo esiste l'azione popolare; allo scopo esistono tribunali e procedimenti speciali, che garantiscono il pieno mantenimento della legalità. Al suddito [...] è poi riconosciuta [...] una complessiva libertas [...] garantita dalla azione concessa al cittadino contro il funzionario che vìoli la legge, libertà che può essere modificata soltanto con legge generale, con quella legge che emana dall'assemblea di tutti i cittadini»[40]. Potrebbe quasi essere la pagina di un manuale di storia del Diritto romano: notevole, in particolare, il ruolo sindacale del sindaco!

c. La possibilità di costruire ordinamenti ampi su base comunale, attraverso lo strumento federativo, è percepita e sperimentata immediatamente. Lo scontro militare tra il re di Francia, Luigi VII, e la federazione comunale ‘di Poitiers’ è del 1137. Notevole è la esperienza delle leghe guelfe in Italia. La Lega Lombarda (fusione delle Leghe Veronese e Cremonese) è del 1167 (giuramento di Pontida) e nel 1176 sconfigge l’imperatore Federico I (battaglia di Legnano). Nel – conseguente – trattato di pace di Costanza (1183) è esplicitamente riconosciuto ai Comuni il diritto di costituirsi in leghe. La II Lega Lombarda, fondata nel 1226, sconfigge nel 1248 l’imperatore Federico II. La Lega Renana del 1254 comprende tutte le Città dell’alto e medio Reno. La Lega Anseatica, iniziata nel 1241 dalle Città di Lubecca e Amburgo, fiorisce particolarmente durante tutto il medioevo, riunendo sino a 90 Città nord- e centroeuropee, ma sopravvive sino al 1815. La Confederazione elvetica nasce nel 1291, su esplicita base comunale. Cola di Rienzo, che si proclama nel 1347 'Tribuno' di Roma, propone (lettera al Comune di Firenze) la unificazione dell'Italia in termini di Confederazione di Comuni, della quale massimo organo di governo sarebbe dovuta essere una assemblea dei delegati delle Città. Nello stesso secolo, una federazione di Città e pievi corse si oppone, guidata da Sambucuccio d’Alando, alla dominazione genovese[41]. All’inizio del secolo XVI, il movimento dei ‘comuneros’ unisce una decina di Città della Castiglia in difesa dei loro diritti contro l’imperatore Carlo V, che le sconfigge a Villalar nel 1521 (ma Toledo resiste sino al 1522)[42]. Tra la fine del secolo XVI e l’inizio del secolo XVII, il tedesco Johannes Althusius, romanista (Jurisprudentiae Romanae libri duo, 1586), riprende le – intrinsecamente connesse – nozioni giusromanistiche di 'contratto sociale' e di 'sovranità popolare' nonché (attraverso la categoria di 'eforato': si veda Calvino [Institution chrétienne, 1536] e Juan de Mariana [De rege et de regis institutione, 1599[43]]) di limite tribunizio al potere di governo, per costruire (Politica methodice digesta, 1614) una ipotesi di organizzazione imperiale su base federativa, la quale, attraverso un sistema di società concentriche, porti dalla molteplicità dei singoli cittadini alla unità dell'impero, passando attraverso le famiglie, i municipi e le province. Althusius sviluppa la componente federativa della sua Politica nella 3a edizione (1614; 1a ed. 1603): quando è nel pieno della esperienza di ‘Syndicus’ della Città di Emden (per oltre 30 anni, a partire dal 1604)[44].


2. – Il modello inglese feudale-moderno del costituzionalismo parlamentare-rappresentativo con la divisione-equilibrio dei poteri


a. Pochi anni prima di Althusius, un altro romanista – ma 'rinnegato' o 'pentito' –, il francese François Hotman (Anti-Tribonianus, 1567), anticipatore in Francia di alcune delle dottrine di Montesquieu sulla 'forma gotica di governo', teorico di un costituzionalismo aristocratico feudale-parlamentare, aveva affrontato nella maniera opposta il tema municipale (Franco-Gallia, 1573). Hotman (come scrive il politologo italiano, Nicola Matteucci) brilla per «la avversione verso le libertà dei municipia romani»: «Lamentava, infatti, l'Hotman, che nel sud della Francia si fosse conservato il diritto romano e, assieme ad esso, i municipia e i consoli, insomma, anche se indebolita, la struttura provinciale della vita romana»[45].
La storia dei Parlamenti viene fatta iniziare, in Inghilterra (la Mater Parliamentorum), nel XIII secolo, quando le locali, risalenti assemblee di magnati feudali, cioè le assemblee di ordini o 'Stati', già impegnate in un conflitto di potere con il re 'sovrano', compiono un decisivo 'salto di qualità'.
E’ stata, da lungo tempo, affermata la natura totalmente a-romana della istituzione parlamentare (in generale e di quella inglese in particolare) sulla scorta della sua ascendenzadal ‘witenagemôt’ germanico e della sua appartenenza alla forma di governo feudale. Va, però, ricordato un altro importante elemento di alterità nei confronti della tradizione giuridica romana. Secondo una linea di pensiero, tanto diffusa quanto risalente, è fondamentale la contrapposizione tra gli uomini 'civili' (propri, per definizione, dell’urbs-civitas) ed i 'barbari' (propri, per definizione, dei boschi e che divengono, in epoca moderna, i 'selvaggi' delle 'selve'). Orbene, trovo estremamente significativo che François Hotman prima e, quindi, lo stesso Montesquieu sentano il bisogno di sottolineare che l’origine del modello costituzionale inglese è “nelle foreste” (Hotman: «les grands marais et les forêts du nord») e “nei boschi” (Montesquieu: «ce beau gouvernement a été trouvé dans les bois»). Tuttavia, per compiere quel ‘salto di qualità’, le autorità e i giuristi parlamentari invocano la dottrina giusromanistica della sovranità del popolo, che essi cercano proprio nelle Città-Comuni. La invocano ma, insieme, la negano o, quanto meno, la eludono. Essi, infatti, attraverso l'istituto anti-giusromanistico della “finzione della rappresentanza” della volontà[46], vi fondano immediatamente l'esercizio della sovranità (ovverosia, la sovranità effettiva) del Parlamento[47].
La Magna Charta libertatum – il primo [1215-25], grande testo della 'costituzione' parlamentare inglese – conferisce più poteri alla ‘City’. Nel 1265, Simon de Montfort (il feudatario ribelle) per poter opporsi al re Edoardo I, convoca a Parlamento, assieme ai 'signori', i rappresentanti del popolo cioè delle città e dei borghi (i Comuni). Nel 1295, Edoardo I, che pure ha sconfitto Simon de Montfort, convocando il “parlamento” che resterà nella storia con il nome significativo di 'Model Parliament', conferma la convocazione dei rappresentanti dei ‘Comuni’ e durante il suo regno – tra il 1272 e il 1307 – si afferma la distinzione in Camera dei Lords (o alta) e Camera dei Comuni (o bassa); distinzione che sarà consolidata, a partire dal 1330, con la uscita del clero dalla istituzione parlamentare.
Assai significativamente, però, lo stesso Edoardo I è colui il quale - da una parte - richiama esplicitamente, a fondamento della istituzione parlamentare, il principio “democratico”[48] giusromanistico di C. 5.59.5.2[49], già utilizzato in àmbito comunale[50], e - da altra parte - ‘perfeziona’ contestualmente questa istituzione con il ricorso alla rappresentanza senza mandato imperativo. Sin dalla convocazione, da parte di Edoardo I nel 1294, delle elezioni per i rappresentanti al Parlamento (e sino al 'Ballot Act', che, nel 1872, farà semplice menzione della elezione) i 'writs of summons' (gli ordini di convocazione) esigono che i deputati (delle Città e dei Borghi) abbiano "full and sufficient power"): ciò che, infatti, costituisce esattamente il perfezionamento pratico della rappresentanza fittizia della volontà.
La indifferenza alla volontà del popolo "concreto" degli uomini-elettori (non, quindi, ‘cittadini’ ma soltanto ‘sudditi’) è una caratteristica sostanziale e formale, nonché originaria e costante, della istituzione parlamentare. Obiettivo costante delle autorità e dei giuristi parlamentari (da Edoardo I a Edmund Burke) è la degradazione delle ‘città-comuni’ a ‘circoscrizioni elettorali’, ovverosia l’annullamento del ruolo del popolo delle Città-Comuni nei processi di formazione della volontà, nell’ordinamento costituzionale.

b. Nell’evo moderno, la istituzione parlamentare inglese deve solamente sviluppare le proprie teoria e prassi medievali.
Già nel XVI secolo, sono sostanzialmente chiari alla dottrina 'costituzionale' inglese: 1) la struttura composita del 'Parlamento' (re, 'lords', comuni) e conseguente limitazione – interna al Parlamento – del potere del re, 2) la natura rappresentativa (in termini complessivi, cioè: non della sola Camera dei Comuni) del potere del Parlamento, 3) il contenuto assoluto dello stesso potere[51]. Thomas Smith (De Republica Anglorum, 1565) scrive: «Il potere più elevato e più assoluto del regno di Inghilterra risiede nel Parlamento: [...] Perché ogni Inglese è concepito esservi presente, sia in persona, sia per procura [...] dal principe, che sia un re o una regina, sino alla persona più miserabile di Inghilterra. E il consenso del Parlamento è considerato il consenso di tutti». Un 'bill' del 1571, che permette la elezione alla Camera dei Comuni di candidati non residenti nella circoscrizione, offre la occasione per approfondire la questione dei rapporti tra la volontà degli eletti e la volontà degli elettori. All’inizio del XVII secolo, Edward Coke (Institutes of the laws of England, 1628) scrive: «L'eletto di una contea, di un borgo, rappresenta il regno tutto intiero. Occorre osservare che, benché eletto da una contea o un quartiere determinato, l'eletto, quando siede in Parlamento, serve per l'insieme del regno, perché il fine della sua presenza, qui, come appare nel 'writ' della sua elezione, è generale». Sarà l’argomento principe (v. Sieyès) per sostenere la irrilevanza della volontà degli elettori.
Nel XVII secolo, quando in tutta Europa le "assemblee degli stati" sono oramai da lungo sostanzialmente scomparse[52], in Inghilterra, la istituzione parlamentare, forte della alleanza stabilitasi da secoli tra la nobiltà rurale, e la élite borghese (la ‘borghesia’), vince 'definitivamente' la partita con la corona, superando le due crisi degli anni '40[53] e degli anni '80[54], e raggiunge la propria maturità con gli apporti teorici di Hobbes e di Locke.
La fortuna parlamentare della medievale teoria giuscanonistica della “finzione” della rappresentanza della volontà è alimentata in maniera qualitativamente importante da Thomas Hobbes, primo grande teorico dello Stato moderno (Leviatano, 1651), il quale, sviluppando la teoria della rappresentanza ‘politica’, offre al parlamento la possibilità di 'sganciare' ulteriormente il proprio potere dalla nozione-base di sovranità del popolo concretamente articolato nelle universitates cittadine. Hobbes introduce (anche qui attraverso la utilizzazione distorta di una idea giusromanistica - mediata, in questo caso, da Althusius [v., infra, prgf. ‘3.c.’] - il 'contratto di società’ o ‘sociale') la nozione-postulato dello 'Stato-persona': persona "artificiale", cui è, però, attribuita natura divina. Dalla nozione-postulato di 'Stato-persona', Hobbes fa discendere una serie di corollari: 1) la titolarità della sovranità non più da parte del popolo concreto ma da parte dell’astratto popolo 'Leviatano', cioè dello 'Stato–persona'; 2) la necessità intrinseca da parte dello Stato – in quanto personaartificiale – della rappresentanza ad opera di persone fisiche e, quindi, 3) il riconoscimento della sovranità a queste ultime, chiunque esse siano, sulla base del fatto che esse esercitinoeffettivamente tale sovranità. Apporto specifico di Hobbes (per quanto implicito nella logica del ‘modello’ che egli sviluppa) è il postulato della impossibilità degli uomini-cittadini di partecipare alla formazione della volontà pubblica, dal momento che ciascuno di essi può essere impegnato esclusivamente nel conseguimento del proprio interesse particolare, dal ché consegue sia la natura intrinsecamente ed esclusivamente ‘privata’ di ogni cittadino (la cui nozione originaria è così totalmente rovesciata) sia la necessità che qualcun altro, indipendentemente dai cittadini, pensi e provveda (comandi) per il loro insieme; in altre parole, la necessità di un ‘sovrano’ altro dal ‘popolo dei cittadini’, altro sovrano che Hobbes individua – appunto – nella “persona artificiale” del Leviatano o, meglio, nelle persone fisiche dei “rappresentanti” di quest’ultimo. Dopo Hobbes, il Parlamento, come il Barone di Münchhausen, potrà tenersi sospeso auto-reggendosi per i capelli. Al popolo inglese non era stato mai permesso di esercitare la sovranità, la cui titolarità gli era stata riconosciuta sulla scorta dei testi giusromanistici soltanto per fondarvi, impropriamente, il potere parlamentare. Viene quindi meno, presso la dottrina giuridica, anche la teoria della sovranità del popolo, abbandonata a favore delle teorie della ‘sovranità della nazione’ (quindi, della ‘sovranità dello Stato’) e della ‘sovranità della legge’ (fino alla teorizzazione kelseniana del diritto come ‘norma dello Stato’, cui corrisponde la equazione sovranità dello Stato = sovranità della 'Grundnorm', 'norma fondamentale' effettivamente vigente). Il passo logicamente successivo è (secondo la anticipazione di Kant) il venire meno della teoria stessa della sovranità[55].
John Locke (Trattati sul governo civile, 1680-81; pubblicati 1688) perfeziona la riflessione parlamentare, teorizzando, quale garanzia della libertà, la consolidata prassi della divisione e dell'equilibrio dei poteri internamente al Parlamento. La generale complementarità ‘in negativo’ (vale a dire, quale sistema di ‘contrappesi’) del pensiero di Locke nei confronti del pensiero di Hobbes, si manifesta ulteriormente nella dottrina lockiana della “tolleranza” (Lettera sulla tolleranza, 1685-86; pubblicata 1689)[56], la quale sta alla dottrina hobbesiana dell’individualismo aggressivo – motore dell’operare umano come la dottrina della “moderazione” (Montesquieu) starà (a partire dal ‘700) alla dottrina del vizio-egoismo (B. Mandeville, La fable des abeilles ou Vices privés, bénéfices publiques, 1714) – fonte del benessere delle nazioni (A. Smith, Ricchezza delle nazioni, 1776). Ulteriore aspetto importante del pensiero di Locke è la svalutazione della attività federativa. Il “potere di fare leghe e alleanze”, tradizionalmente espressione della sovranità, pure ancora distinto dagli altri ‘tre poteri’, viene presentato (nei Trattati) come una sorta di appendice del potere esecutivo. Montesquieu «toglierà definitivamente [… al potere federativo] ogni rilievo autonomo» trasformando quella che era una caratteristica essenziale del genus repubblica in una specie particolare di repubblica: la “repubblica federale”. Per altro, secondo Montesquieu (come, poi, ancora secondo Kant) soltanto le repubbliche possono correttamente federarsi tra loro e il «modello di buona repubblica federale» è «l’antica Repubblica di Licia, composta dall’associazione di 23 città» (De l’esprit des lois, 1748, libro nono)[57].


II. – COSTITUZIONALISMI E COSTITUZIONI


1. – La fine dell’‘Ancien régime’ e le “due linee di tendenza”


Nel XVIII secolo, si sviluppano, in Francia, la opposizione e la lotta all'assolutismo monarchico moderno, che ha raggiunto il proprio apice con Luigi XIV (e Richelieu) è che è, al contempo, anti-parlamentare ed anti-comunale.
In tale lotta, la contrapposizione tra parlamentarismo (o 'sistema rappresentativo' o 'governo gotico') e autonomia municipale emerge ancora chiaramente e resta fondamentale per tutto il corso del secolo. Sono le "due linee di tendenza"[58], che si esprimono, da una parte, nel richiamo all'istituto feudale degli Stati generali, a favore del quale milita il modello parlamentare inglese, e, dall'altra parte, in una serie di tentativi di ripristinare le autonomie municipali di origine romana.
In Francia, le "due linee di tendenza" trovano, all'inizio del secolo, le rispettive teorizzazioni nelle opere di Boulainvilliers e di Dubos. Come già Hotman, anche Henri de Boulainvilliers[59] teorizza, per la Francia, un regime aristocratico parlamentare, fondato sui diritti 'di sangue' dei Germani-Franchi conquistatori, il cui principio organizzatore è la razza[60]. L'Abbé Dubos[61] è il grande contraddittore di Boulainvilliers e capostipite di quella che verrà chiamata 'école romaniste' (Fustel de Coulanges). Anche in questo caso, la opposizione è tra il governo feudale («chef-d’œuvre de l’esprit humain», secondo Boulainvilliers) e le autonomie municipali romane difese da Dubos.
In De l'esprit des lois, Montesquieu prende partito a favore di Boulainvilliers, contro Dubos.


2. I due costituzionalismi


a. «Au début du XVIIIe siècle, le modèle d'institutions politiques de la démocratie moderne est presque entièrement édifié en Grande-Bretagne, où il fonctionne effectivement», scrive Duverger, autorevole esponente francese del contemporaneo costituzionalismo "anglofilo"[62]Nel 1716, il 'Septennial Act' dispone una cadenza settennale per la durata e il rinnovo del mandato parlamentare e ne riafferma la emancipazione dalle 'istruzioni'. Nello stesso periodo, il parlamentarismo inglese, così attrezzato, 'sbarca', con la mediazione della pubblicistica protestante francese[63], sul continente europeo.
I principi enunciati da Thomas Smith e da Edward Coke, da Thomas Hobbes e da John Locke trovano conferma presso Montesquieu, il quale - come è stato osservato - descrive in forma sistematica il potere del Parlamento inglese senza assolutamente porsi il problema del suo fondamento (è il contributo di Hobbes). William Blackstone, seguace di Montesquieu ed autore del trattato più noto di 'Common Law', i Commentaries on the laws of England (1765-69), insegna la rappresentanza con assenza di mandato imperativo e la sovranità ("onnipotenza") del Parlamento, nei confronti del quale non è ammessa la resistenza popolare[64]. Edmund Burke, ‘conservatore’ (le sue Reflections on the Revolution in France – 1790 – restano un 'classico' del ‘conservatorismo’ contemporaneo) e (secondo Matteucci) «ultimo dei grandi costituzionalisti inglesi moderni [... che] fonda, sul piano teorico, il regime parlamentare»[65], nel noto discorso ai suoi elettori di Bristol (1774), ribadisce per l’ennesima volta il principio della rappresentanza senza mandato imperativo.
La «théorie de la souveraineté et de la représentation nationales», la quale «correspond [à] celle du mandat représentatif [...] aboutit ainsi à déformer l'idée de représentation politique, et à transférer de la nation au Parlement la véritable souveraineté» scrive con qualche imbarazzata contorsione l’'anglofilo' Duverger. Matteucci osserva che «per fare una legge è necessario il consenso del re, dei lords [...] e dei Comuni. Ma se dal loro accordo, derivasse poi una violazione dei diritti dei cittadini, è problema che non sembra [...] sfiorare il Blackstone» ed aggiunge: «Il Parlamento inglese rimase, nella sua storia, sempre fedele, in via di principio, alla tesi della propria onnipotenza»[66]Più semplicemente, secondo Journes, «La doctrine du gouvernement représentatif» svolge pienamente il ruolo di «justification objective de l'oligarchie»[67]Già Max Weber (il quale conosceva bene il Diritto romano: v. la sua Römische Agraargeschichte, 1891) aveva osservato che, nella rappresentanza senza mandato vincolante, i rappresentanti si trasformano da “servitori” (“Diener”) in “padroni” (“Herren”) dei rappresentati (Wirtschaft und Gesellschaft, 1922). Weber aveva anche precisato (ibidem) che la natura dei corpi rappresentativi non è democratica ma “aristocratica o plutocratica” (“come in Inghilterra”). Per completare il quadro, occorre osservare che la categoria di repubblica resta sostanzialmente estranea al costituzionalismo di modello inglese: marginale ed ininfluente in Montesquieu[68], è seppellita come «di poco valore sia sul piano giuridico sia sul piano politico dai costituzionalisti odierni[69]. E’ l’‘esito inglese’, profondamente eterogenetico, di un percorso iniziato, nel secolo XIII, a partire dalla nozione di origine giusromanistica della sovranità popolare (v., supra, il prgf. ‘Premessa’).

b. Nel Contrat social (1761), Rousseau, in quanto si dichiara “repubblicano” (contro il parlamentarismo “feudale” e “inglese”, che egli definisce «la pire des souverainetés» [“il popolo inglese è servo”] benché la miglior forma di governo “moderna”), riafferma la necessità della partecipazione del popolo alle grandi decisioni di interesse generale. Rousseau riafferma, cioè, titolarità ed esercizio della sovranità da parte del popolo come essenza della Repubblica, con le conseguenze 1) del ruolo propriamente esecutivo del governo e 2) della istituzione di un tribunato, difensore del popolo contro il governo. Orbene: Rousseau coglie in modo magistrale, già nel Contrat social, il nesso popolo-città. Proprio nel capitolo dedicato al "pacte social", egli scrive: «Cette personne publique qui se forme ainsi par l'union de toutes les autres prenait autrefois le nom de Cité[70], et prend maintenant celui de République ou de corps politique, lequel est appelé par ses membres Etat quand il est passif, Souverain quand il est actif, Puissance en le comparant à ses semblables. A l'égard des associés ils prennent collectivement le nom de peuple, et s'appellent en particulier Citoyens comme participants à l'autorité souveraine, et Sujets comme soumis aux loix de l'Etat».
Il passaggio – nella forma più chiara – dalla affermazione del principio alla sua concreta traduzione, avviene con il Projet de Constitution pour la Corse[71]. La tesi, qui sostenuta da Rousseau, è che la instaurazione di un rapporto dialettico vincolante tra le assemblee dei cittadini dei Comuni-"Pievi" (il sovrano) ed il governo centrale (l’esecutivo) è la soluzione costituzionale sia più democratica sia, al contempo, più favorevole alla economia corsa[72]; la soluzione, cioè, che consente una corretta distribuzione della popolazione e delle attività economiche sul territorio e che scongiura il prevalere e di ceti oligarchici e di concentrazioni urbane[73]. Nel Projet de Constitution pour la Corse, i tribuni sono previsti con il nome di ‘Gardes des Loix’. Le indicazioni di soluzioni costituzionali fornite nel Projet possono essere opportunamente integrate con quanto Rousseau scrive nellaNouvelle Héloïse, ove egli preconizza la divisione dell'Isola in dodici giurisdizioni «ou petits Etats confédérés ayant chacun son assemblée souveraine» ed un governo federale dalle funzioni ridotte, con sede in un capoluogo che non sia una vera 'capitale', perché la presenza di una 'capitale' è causa di corruzione nello Stato. Il Projet de Constitution pour la Corse è redatto, da Rousseau, tra il 1760 e il 1769 ma, purtroppo, pubblicato postumo soltanto nel 1861. Ciò gli ha, ovviamente, impedito di incidere sul processo costituzionale di fine Settecento e primo Ottocento e può – forse – concorrere a dare ragione di una certa erronea immagine 'centralistica' del costituzionalismo democratico in generale e giacobino in particolare[74]. A mio avviso però, va, invece, osservato che – proprio per il mancato magistero rousseauiano – la costante presenza dell’autonomia municipale (con il connesso strumento federativo) in tale costituzionalismo è prova dell’intrinseco, genetico legame tra l’una e l’altro.


3. – La formazione delle costituzioni


a. Nel precipitare tardo-settecentesco della crisi della monarchia assoluta, si acutizza il confronto tra i due costituzionalismi.
Nel 1764 sono pubblicate le Considérations sur le gouvernement ancien et présent de la France (1737) del “repubblicano” Marquis d'Argenson (+ 1757)[75] il quale propone – in polemica con le tesi di Boulainvilliers – la rivitalizzazione e la diffusione in tutta la Francia del regime municipale romano e delle connesse libertà comunali come luogo di espressione del popolo. Nel 1776, il ministro Turgot si propone di realizzare il progetto di «municipalità autonome che – scrive ancora Matteucci – sembravano quasi ricordare le antiche libertà delle città romane difese dal Dubos e teorizzate dal d'Argenson; progetto che venne poi realizzato dal Necker nel 1778 nelle généralités di Bourges e di Montauban, e in seguito riproposto dal Calonne nel 1787 all'Assemblea dei notabili e parzialmente attuato da Loménie de Brienne nel 1788»[76]. Alla "linea di tendenza" 'municipale' si allinea, almeno inizialmente, lo stesso Condorcet[77].
Di fronte alla resistenza dell'Assemblea dei notabili (nel 1787) e sotto la pressione della rivolta parlamentare (apertamente scoppiata con sommosse a Pau, Rennes, Grenoble), l'8 agosto 1788, Loménie de Brienne convoca gli Stati generali per il 1º maggio 1789. Questi, alla loro volta, si trasformano (sotto la pressione, ora, del Terzo Stato, guidato da Emmanuel Sieyès, il grande teorico del parlamentarismo borghese e contrario alla democrazia anche nel "più piccolo municipio"[78]) nella 'Assemblée nationale' (27 giugno) e, quindi, nella 'Assemblée constituante' (9 luglio). Il regolamento (24 gennaio 1798) degli Stati generali vieta il mandato imperativo, il divieto è ribadito da Luigi XVI il 23 giugno. La prima Costituzione francese (1791), al capo III art.2 sanziona: «La Nation, de qui seule émanent tous les pouvoirs, ne peut les exercer que par délégation. - La Constitution française est représentative: les représentants sont le Corps législatif et le Roi». Il deputato Condorcet, in una lettera ai suoi elettori (1792), potrà scrivere :«Mandatario del popolo come sono, farò quel che credo conforme ai suoi veri interessi; il popolo mi ha inviato non per sostenere le sue opinioni, ma per esporre le mie». Nella connessa 'Déclaration des droits' (all'art.16) è detto: «Toute société dans laquelle la garantie des droits n'est pas assurée ni la séparation des pouvoirs déterminée, n'a point de constitution». E’ la affermazione del modello aristocratico (feudale-borghese) inglese del potere parlamentare, garantito dagli equilibri interni al parlamento, in luogo del modello democratico (giuspubblicistico) romano della sovranità del popolo, garantita dal tribunato.

b. Non mancano, tuttavia, Costituzioni e tentativi di costituzioni per le quali le assemblee dei deputati del popolo non zittiscano il popolo. E' qui che va ancora cercato il 'filo' della tradizione repubblicana-municipale (e federativa). Mi limito – anche qui – a menzionare qualche esempio.
La Costituzione francese del '93, detta 'giacobina', è (come ha osservato Carré De Malberg)[79] sicuramente l'esempio più illustre di ‘costituzione democratica’. Essa è preceduta (nella Convenzione del 1792, che pone fine alla monarchia) dalla affermazione che «à l’établissement des municipalités [... on doit] le patriotisme qui a constamment régné dans les campagnes; et le jour où l’Assemblée constituante les dissémina jusque dans les plus petits hameaux de la République, fut celui où elle assura à jamais la liberté à la France»[80]Saint-Just aveva criticato la divisione del territorio della Francia in Dipartimenti, proposto dal progetto girondino di Costituzione, affermando: «in una repubblica la divisione del territorio deve risiedere nella popolazione, non nel territorio, e la sovranità del territorio deve risiedere nei comuni»[81]. Ed Hérault-Séchelles, nel presentare la Costituzione giacobina alla Convenzione nazionale (il 10 giugno 1793), afferma il ruolo dei comuni, specialmente dei piccoli comuni, per cui condanna come reazionaria l’idea della riduzione del loro numero: «elle n’a pu naître que dans la tête des aristocrates, d’où elle est tombée dans la tête des modérés». La Costituzione del ‘93 stabilisce: «La souveraineté réside dans le peuple ...» ('Déclaration des droits' art.25); «Aucune portion du peuple ne peut exercer la puissance du peuple entier; mais chaque section du souverain assemblée doit jouir du droit d'exprimer sa volonté avec une entière liberté» (ibidem art.26); «Le peuple souverain est l'universalité des citoyens Français» ('Acte constitutionnel' art.7); «Il nomme immédiatement ses députés»; 10 «Il délibère sur les lois» (ibidem art.8). Inoltre (artt.33-35 della 'Déclaration des droits') legittima il «droit de résistance» e il «droit d'insurrection [...] du peuple et de chaque portion du peuple» in caso di "oppression". La Costituzione giacobina prevede i 'deputati-rappresentanti' riuniti in un 'Corps législatif', che si chiama 'Assemblée nationale'. Ma, il meccanismo costituzionale è tale per cui la assemblea dei deputati non può fare a meno, sulle grandi questioni, del concorso diretto della volontà dei cittadini. «Respectez surtout la liberté du souverain dans les assemblées primaires» raccomanda Robespierre nel discorso noto come “pour la Constitution”. Ciò implica, inoltre, una drastica limitazione numerica delle "leggi": presuppone, cioè, la realizzazione dell'odierno, agognato obiettivo della 'delegificazione'[82]. E', attraverso Rousseau, il modello giuspubblicistico romano[83].
In Sardegna, i moti angioiani del 1797 sono la manifestazione più acuta della contrapposizione tra i “realisti” (sostenitori del sistema feudale che trova la propria più elevata espressione di governo nel parlamento degli Stamenti) ed i “giacobini”, che progettano la trasformazione della Sardegna in una “repubblica federale”. La base organizzativa dei repubblicani-giacobini sardi sono i comuni (le “ville” di origine romana)[84], che avviano il processo “federale” con “atti di unione” formali (notarili)[85]. Il progetto municipale sardo, che cerca sostegno in Francia (mentre i feudatarî si volgono all’Inghilterra), fallisce forse soltanto per una questione di giorni. Giovanni Maria Angioy apprende a Oristano, mentre da Sassari muove con le sue truppe comunali verso Cagliari, che non potrà più avere l’aiuto della Francia, la quale ha concluso a Cherasco la pace con il Piemonte[86].
Anche la giacobina Repubblica Romana del 1798 si organizza in Federazione delle Municipalità e dei Dipartimenti[87].


III. – Sviluppi contemporanei e prospettive odierne: la Costituzione italiana ed il suo contesto


a. In Europa, tra la fine del XVIII secolo e gli inizi del XX secolo, la scienza tedesca dello 'Staatsrecht' (Kant, Hegel, Mommsen, Kelsen) porta al parlamentarismo il sostegno della costruzione sistematica, non sostanziali innovazioni. Anzi (complici l’abbandono ottocentesco del metodo dei modelli per il metodo 'ingenuo' della utopia e la connessa fede nella economia) i livelli della riflessione giuspubblicistica (e, quindi, giuridica in generale) del Settecento divengono lontani, nonostante contrari (autocelebrativi) luoghi comuni; ciò che spiega il progressivo disinteresse per il Diritto (pubblico) romano.
Nello stesso periodo, si registra una crisi delle città. L'affermarsi della economia 'industriale', caratterizzata dalle grandi concentrazioni, intorno alle 'fabbriche', di ‘masse’ di uomini organizzati secondo il principio della 'divisione del lavoro', comporta anche la riorganizzazione delle città, che vengono riorientate su nuovi poli e ridimensionate su nuove dimensioni. I nuovi poli sono la fabbrica, il centro finanziario, le periferie dormitorio. Le dimensioni crescono a dismisura. Si moltiplicano le megalopoli, che assorbono abitanti dalle altre città (a volte, trasformate esse stesse in dormitori) e dalle campagne. Le nuove città non hanno più niente (o molto poco) in comune con le città storiche, le «città vere» (La Pira): esse assomigliano molto di più, con le loro 'selve' di palazzi, ai boschi. In questo contesto si colloca la riflessione di Marx, secondo cui la forma economica capitalistica proviene non dalla forma economica 'pre-capitalistica' antica (greco-romana) incentrata sulla società urbana ma dalla forma pre-capitalistica medievale (germanica) incentrata sull'individualismo degli abitanti dei boschi. Il nesso con i temi costituzionali è evidente. Già Hotman e Montesquieu avevano posto “nei boschi” la origine del governo parlamentare (v., supra, prgf. I.2.a). Sieyès aveva invece già visto e teorizzato la equazione tra divisione del lavoro nella economia e divisione del lavoro nelle istituzioni costituzionali: alla distinzione di ruoli economici tra imprenditori e lavoratori (a loro volta distinti per mansioni) corrisponde la distinzione di ruoli costituzionali tra rappresentanti e rappresentati.
Comunque, il costituzionalismo parlamentare-rappresentativo assolutamente predominante nei secoli XIX e XX non annulla ogni manifestazione democratica e federativa del costituzionalismo repubblicano-municipale. Nell’Ottocento, la Costituzione della Repubblica Romana del 1849, al "Principio" 4º, dichiara che riguarda «tutti i popoli come fratelli, rispetta ogni nazionalità propugna la italiana» (in termini di "confederazione") e al "Principio" 5º stabilisce che «i Municipî hanno uguali diritti, la loro indipendenza non è limitata dalle leggi d'unità generale dello Stato». Durante i lavori della Assemblea Costituente, il ‘socialista’ Carlo Luciano Bonaparte aveva proposto – benché senza successo – la istituzione del “Tribunato”[88]In Francia, P.J. Proudhon[89] propugna le "federazioni municipali" (Du principe fédératif et de la nécessité de reconstituer le parti de la révolution, 1863). Nel 1871, la Comune di Parigi anticipa il movimento operaio internazionale.

b.a. La storia, relativamente breve, dello Stato italiano può costituire un utile paradigma dello stato della questione dall’Ottocento ai giorni nostri.
Anche presso la Costituzione italiana, nonostante la sua pluralità di ispirazioni, è certamente dominante il ‘costituzionalismo parlamentare’. L'art.67 della Costituzione italiana (1º gennaio 1948) stabilisce che «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». E’ la consacrazione delle tesi di Edmund Burke ed il giudizio impietoso di Max Weber vale perfettamente anche per il nostro ordinamento. Costantino Mortati afferma, infatti, nella maniera più esplicita e più autorevole (nel grande Commentario della Costituzione italiana a cura di Giuseppe Branca [1975]), che nessuna delle condizioni necessarie a consentire l'esercizio popolare della sovranità, pure solennemente affermato come «principio fondamentale» all'art.1 della stessa Costituzione, si realizza nell’“ordinamento della Repubblica”, con la conseguenza che «il regime di poliarchia effettivamente vigente viene a realizzare una forma di sovranità del Parlamento». Corrispondentemente, le autonomie locali sono escluse dall’iter (parlamentare) di formazione della volontà pubblica.
La presenza del costituzionalismo repubblicano non è confinata nella sola prima parte della Costituzione. Vi è una spinta, tuttora inattuata, alla costruzione della compagine statuale come «sistema delle autonomie» (v., infra, citazione della sentenza 87/1996 della Corte costituzionale). Inoltre, secondo Giuseppe Grosso, una presenza ‘tribunizia’ si fa strada nella Costituzione attraverso l’art.40 (riconoscimento del diritto di sciopero)[90].
La questione del ruolo costituzionale delle autonomie municipali e dei loro nessi federativi, in un ordinamento realmente ‘repubblicano’ è stata ed è riproposta continuamente. Ricordo, nella fase della formazione dello Stato italiano[91], Vincenzo Gioberti (1801-1852)[92], Antonio Rosmini Sorbati (1797-1855)[93], Niccolò Tommaseo (1802-1874)[94], Carlo Cattaneo (1801-1869[95], discepolo di Romagnosi[96]) Giuseppe Ferrari (1811-1876, amico di Proudhon)[97], Giuseppe Montanelli (1813-1862)[98], Carlo Pisacane (1818-1857)[99] e – sopra tutto – Pietro Ellero (1833-1933). Èllero[100], filosofo del diritto e penalista, deputato e senatore del Regno di Sardegna, critica gli “ordini rappresentativi”, di ascendenza inglese, ed esalta la organizzazione municipale ed il tribunato, di ascendenza romana[101]. Gli scritti di Èllero (che, come ricorderà Giuseppe Brini, è sostenitore della «rinnovellazione del diritto romano pubblico») hanno costituito, per il pensiero giuspubblicistico italiano, un punto di riferimento alternativo rispetto al punto di vista proposto dagli scritti di Bluntschli (e di Gneist). Press'a poco negli stessi anni di Èllero, il "monarcomaco sardo" Giovanni Battista Tuveri (sacerdote e uomo politico) è un assertore del ruolo ‘politico’ dei Comuni, che egli difende contro il governo piemontese[102]-[103].
La spinta municipale (e, in misura ovviamente minore, federativa) non viene meno, nonostante la imposizione della organizzazione politica e giuridica sabauda al resto della Penisola da parte di Vittorio Emanuele II (con l’aiuto determinante del ministro Conte di Cavour e delle armi di Napoleone III). Nel nostro secolo, Luigi Sturzo (1871-1959), anche egli sacerdote ed uomo politico (fondatore del ‘Partito popolare’ e deputato nonché a lungo pro-sindaco di Caltagirone, in Sicilia), dà significato istituzionale alla propria scelta “popolare” attraverso la affermazione del ruolo fondamentale dei Comuni (e delle Regioni) connessi secondo una logica federativa[104]. Nel 1920, anche l’altro tentativo di una uscita non fascista dalla crisi post-bellica dello Stato sabaudo, la Carta del Carnaro, si qualifica per «le larghe funzioni attribuite ai Comuni», attraverso le quali si ricerca la realizzazione della “democrazia diretta”[105]. Nel secondo dopoguerra, Giorgio La Pira (1904-1977), professore di Diritto romano, costituente, deputato e sindaco di Firenze, interpreta l’ufficio di sindaco con la rigorosa categoria giusromanistica del 'mandato' che – per ragioni di comprensibilità – chiamerò ‘imperativo’. «mandatum non suscipere liberum est; susceptum autem consummandum [...] est» (si è liberi di non accettare il mandato, ma una volta accettato esso deve essere adempiuto) scrive La Pira (citando Giustiniano, Inst. 3.26.11) nel discorso di conclusione dell'incarico di sindaco di Firenze (1964). Merito specifico di La Pira è l'avere ricollocato con forza il 'municipio' nella dimensione e nella prospettiva della cooperazione sovranazionale (1955: convocazione a Firenze del primo "Convegno dei sindaci delle capitali del mondo")[106].
In questi ultimi anni, la crisi della cd. ‘prima Repubblica’ ha prodotto novità ‘costituzionali’ importanti (la cui portata è stata, a mio giudizio, sottovalutata dai costituzionalisti) proprio e soltanto a partire dalle autonomie locali. La Legge 8 giugno 1990, n.142 "Ordinamento delle autonomie locali", al capo II, rilancia la «autonomia statutaria» e, al capo III (artt. 6-8), prevede la attivazione di «Istituti di partecipazione popolare», che sono il «referendum consultivo», la «azione popolare» e il «Difensore civico». La Legge 1993 n.81 impone al candidato Sindaco (e al candidato Presidente della Provincia) di presentarsi ai comizi elettorali con un programma per il quale chiedere ai cittadini il mandato ad amministrare la comunità cittadina (o la comunità provinciale). I principi basilari del parlamentarismo feudale-moderno (rappresentanza 'sovrana' e riduzione della garanzia delle libertà agli equilibri tra legislativo ed esecutivo) sono negati da queste leggi che introducono, con il referendum e l’azione popolare, il mandato imperativo e la possibilità del difensore civico eletto direttamente dai cittadini[107]. Si noti che, secondo i costituzionalisti italiani[108], la istituzione di un difensore civico nazionale modificherebbe la struttura costituzionale dello Stato (non del governo), spostandone gli equilibri dall’assetto rappresentativo a favore della sovranità popolare, soltanto se ad elezione diretta da parte dei cittadini.
b. Instaurare la “partecipazione” nel municipio, sebbene sia necessario, è però insufficiente e corre anzi il rischio di produrre a medio termine disillusione e disaffezione gravi tra i cittadini, se, nell’ordinamento costituzionale, il municipio resta solamente come ultima agenzia esecutiva e non assume anche il ruolo di momento primo e basico del processo di formazione della volontà pubblica.
Nel contesto regionale sardo, ricordo il programma di “federalismo interno” annunziato dal governo regionale di inizio legislatura ed il connesso tentativo di riformare la legge regionale 33/1975, facendo partire in maniera determinante dai Comuni il processo programmatorio e di formazione della legge finanziaria.
Ultimamente, questa esigenza repubblicana ha iniziato ad ottenere udienza anche nel contesto costituzionale italiano.
Una sentenza della Corte costituzionale (n.87 del 28/3/1996) ha esplicitato la chiamata alla “programmazione concertata tra Regione ed enti locali come metodo di raccordo dei vari livelli di governo” contenuta nella legge 142 del 1990, la quale – alla sua volta – realizzerebbe principi già presenti nella nostra Costituzione (artt.115 e 117).
Tra le più rilevanti conclusioni, alle quali è pervenuta l’interrotta “Commissione bicamerale” italiana, vi è la nuova definizione degli elementi costitutivi dell’‘ordinamento’ della Repubblica (parte seconda della Costituzione). Nel progetto bicamerale di riforma costituzionale, il titolo primo è: “Comune, Provincia, Regione, Stato”. Nella redazione attuale, il titolo primo è “Il Parlamento”. Occorre aggiungere che, sempre secondo il progetto di riforma uscito dalla ‘Bicamerale’, la seconda parte della Costituzione muterebbe la denominazione attuale di “Ordinamento della Repubblica” in “Ordinamento federale della Repubblica” e che lo stesso estensore e relatore di maggioranza di questa parte del progetto, Francesco D’Onofrio, ne indica come elemento qualificante la «centralità del Comune».
Il passaggio da un costituzionalismo all’altro non potrebbe apparire più evidente. Purtroppo è ‘incosciente ed a-sistematico’. Esso, oltre ad essere incompiuto, rischia gravemente di restare velleitario e contraddittorio. Debolissima è la apertura, nel nuovo art.111 del testo della Commissione bicamerale, verso il “difensore civico”. Inoltre, gli orientamenti partecipativi della Bicamerale sono smentiti dalle leggi cosiddette “Bassanini” (n.59 del 15 marzo 97, n.127 del 15 maggio 98 e n.191 del 26 giugno 98) le quali scelgono la strada, opposta, del decentramento esecutivo[109]. Il pericolo, sempre incombente, è di conservare ed anzi di esasperare, sotto l’apparenza del cambiamento, la odierna e ‘vecchia’ contraddizione, denunziata da Mortati, tra sovranità nominale del Popolo e sovranità effettuale del Parlamento.

c. Se la – tentata – riforma costituzionale italiana è – ancora – più terminologica che sostanziale e con molti elementi equivoci, non è, però, difficile comprendere ciò che ‘bolle’ sotto ‘definizioni’ come quelle menzionate. Gli economisti e i sociologi parlano di ‘post-fordismo’ e di ‘sviluppo sostenibile’ e vi riconnettono la nuova stagione (opportunità e rischi) delle città e delle autonomie locali[110]. A tale proposito, propongo alcuni esempi, tratti da diverse aree del mondo.
Il primo esempio è europeo. L’Unione Europea (Decisione della Commissione delle Comunità europee del 14 nov. 1995) ha ‘scoperto’ la inefficacia della propria politica programmatoria centralistica (“dall’alto”), per settori della economia, ed ha deciso di “capovolgerla, favorendo” «una nuova metodologia di sviluppo partecipativa per la quale è necessario che l’impulso provenga dalle stesse forze locali […] e dalle istituzioni territoriali, che meglio conoscono le peculiarità e le potenzialità delle proprie risorse e sono in grado di individuare, secondo le opportune priorità, le azioni da intraprendere per sostenere il proprio sviluppo economico e sociale nel rispetto delle tradizioni locali e culturali».
Il secondo esempio è di àmbito mediterraneo. Nel “Documento finale” del II Forum Civile Euromed, che ha avuto luogo a Napoli, dal 12 al 14 dicembre 1997, è stata auspicata la assunzione di un ruolo maggiore, nella cooperazione euro-mediterranea, da parte delle autonomie: Regioni e Città. Per queste ultime si indica «Un ruolo strategico nel predisporre servizi alle imprese e nuove opportunità di riallocazione delle attività» e si rivendica, per tanto, il «loro passaggio da oggetto della pianificazione a soggetto pianificatore». Si raccomanda, in fine, «la creazione di opportunità di interscambio tra gli operatori e gli studiosi dei fenomeni delle città mediterranee» e «la definizione di strumenti appropriati di analisi, valutazione e controllo dei fenomeni urbani al fine di governarne la trasformazione».
Il terzo esempio si riferisce alla America Latina. Cito, testualmente, un lavoro di due ricercatrici messicane[111]: «El Plan Nacional de Desarrollo 1995-2000 para Méjico hace patente la importancia de impulsar un nuevo federalismo por medio de: 1) Impulsar la descentralización de funciones, recursos fiscales y programas públicos; 2) Formular nuevas bases para el sistema de contribución fiscal; 3) Vigorizar la participación municipal en la planeación del desarrollo; 4) La participación directa de las comunidades en la definición de los programas socialmente prioritarios». A mio giudizio, è il punto ‘3’ che illumina è dà senso all’insieme del ‘Plan’ federalista messicano.
Negli Stati Uniti d’America la questione costituzionale al centro, oramai da tempo, del dibattito scientifico[112] e politico è la stessa.